Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/119

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TRAME 107

«Spetè, fiola» disse l’arciprete, fermandola con un gesto. E si voltò a don Emanuele:

«Tanto fa che ghe disemo tuto. Dopo la dirà ela cossa che la pol far. Ve pare?»

Don Emanuele, memore della lezioncina toccatagli un momento prima da chi avrebbe reputato scolaro e non maestro, drizzò come ventagli le due mani ferme sulle ginocchia e mormorò alla sua volta:

«Non so.»

Don Tita prese un tono deciso.

«Sì, sì, contè» diss’egli, «contè.»

Allora don Emanuele si raccolse la sottana sulle gambe con un gesto quasi femminile e disse:

«La cosa è semplice.»

Evidentemente, la cosa era complicatissima ed egli non sapeva da qual parte cominciare.

«La signorina» disse «ha vivi i suoi genitori. Il padre... sa...»

Il cappellano soffiò un lungo soffio gentile, senza gonfiar le gote, senza movere, quasi, le labbra, come se del padre ci fosse da dir bene e da dir male e, tirate le somme, il miglior consiglio paresse quello di tacerne.

«Invece» riprese «la madre...»

«Sì, la madre...» commentò don Tita in tono di basso profondo, di soddisfazione grave, e scotendo il capo a negare silenziosamente che se ne potesse dir male.

«Gesummaria, don Tita!» sussurrò sgomenta, guardando il cognato, la siora Bettina, che aveva udite, in addietro, ben altre campane.

Il cappellano la placò.

«No» diss’egli. «Ecco. In passato ci fu da dire. Certamente. Ci furono delle leggerezze. Adesso è una donna che ripara. È una donna che pensa unicamente a opere di pietà, a opere di carità, che vive a Milano