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272 CAPITOLO OTTAVO

d’altra parte, per certe ragioni di rito, non sarebbe stato possibile di celebrarlo nel giorno settimo, ciò cui l’arciprete non aveva ora pensato, dichiarò che si prendeva la responsabilità di ordinarlo a nome dell’amico. Per l’ora si sarebbero intesi. E a nome dell’amico pregò che lo si aiutasse a trovare un sacerdote per la messa festiva nella chiesina della villa. L’arciprete avrebbe risposto con effusione cordiale se non lo tratteneva un’ombra sul viso del cappellano. Così rispose un vago «vedremo». Allora Molesin, cui non era sfuggita l’ombra, fece intravvedere daccapo, attraverso una nebbia di mezze parole, le belle cose che Momi Camin potrebbe fare se trovasse simpatia e se avesse la pace in casa. Non specificò nè le belle cose nè altro; e l’arciprete, contento che non specificasse, che non proponesse una specie di contratto, accompagnava i suoi giri e rigiri di frasi con certi — ben — ben — ben — che, per l’oratore, erano tante gocce di balsamo.

Ma don Emanuele, temendo evidentemente, per i suoi reconditi fini, che il principale si compromettesse con parole poco misurate, gli ricordò certe faccende urgenti da sbrigare insieme, per cui Molesin fu costretto a levare il campo. L’arciprete gli domandò se intendesse partire quel giorno stesso. Rispose di essere venuto da Padova con quest’idea. Ma il paese era troppo bello e l’amico Momi gli faceva tanta violenza perchè restasse! Restava. Proclamato enfaticamente questo fantastico atto di sottomissione, prese congedo, trottò verso la Montanina, ora meditando il racconto dell’arciprete e l’ombra enigmatica sul viso di don Emanuele, ora struggendosi di sapere come fosse andato il colloquio di Momi con quella signora Baila, o Balia, o il diavolo che la porti. Quando arrivò alla meta, il sior Momi non era ancora ritornato. Ritornò poco dopo. Molesin, che stava informandosi della colazione in cucina, lo udì chiamare per