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396 CAPITOLO DECIMOQUINTO

fiabe? Vi era nel libriccino un foglietto staccato di carta rosea, una preghiera scritta per Fedele dalla mano stanca della nonna cara, morta da quarant’anni. Fedele la sapeva a memoria. Volle rivedere la scrittura della mano stanca:

«Gesù, infinitamente umile, distruggete la mia superbia e il mio amor proprio. Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito Santo. Gesù, modello di dolcezza, datemi una perfetta dolcezza, una somma carità verso i miei prossimi. Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito Santo.

Virtù a praticarsi:

Silenzio in tutte le contrarietà.»

Sì, nonna cara, silenzio nelle contrarietà e silenzio anche nella consolazione. Fedele ripose il libriccino, spense la luce, si fece silenzio nel cuore pieno di Dio.


III.


La cameriera le portò il caffè alle sette, e le raccontò la fuga di Lelia. L’aveva appresa dal custode, cui era stata raccontata, la sera, da un ferroviere all’osteria della stazione. Anche la donna venuta allora allora a portare il latte, lo sapeva. Alle nove, mentre la cugina Eufemia era infervorata nei preparativi della partenza, capitò Teresina, piangente. Sperava che donna Fedele sapesse qualchecosa. La cugina Eufemia, convinta che Fedele non sapesse niente e desiderosa che non fosse disturbata, congedò Teresina con queste ragioni appunto, non senza, però, averle chiesto cosa ne pensasse il padre. Teresina lo ignorava. Il sior Momi era partito per Vicenza coll’idea, pareva, di rivolgersi alla questura. La Fantuzzo credeva che la signorina fosse fuggita in un convento. Anche Teresina ne aveva dubitato, sulle