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440 CAPITOLO DECIMOSESTO

il nome «Leila», del dono. Le ripose l’anello in dito, tacendo, e, tacendo, le lasciò libera la mano.

«Io ero cattiva» disse Lelia, sottovoce, «ed egli era tanto buono.»

Nel silenzio che seguì, l’eguale rombo del torrente non era più l’urlo di un idiota, era un compianto sul morto bel giovinetto dal cuor gentile.

Massimo riprese la mano della fanciulla.

«Suo padre ha desiderato» diss’egli, «poco prima di morire, che io prendessi il suo posto. Questo desiderio lo deve aver messo egli nel cuore di suo padre. Non lo dimenticheremo mai, cara; vero? Mai mai fino alla morte. Vuoi che ti chiami Leila, in memoria di lui?»

«Sì sì» diss’ella commossa. Entrambi, uno dopo l’altro, baciarono l’anellino.

«Mi parlava tanto di Lei, sa» disse Lelia, ritornando al «Lei». Egli non rispose. Si alzarono insieme, per una tacita intesa, passarono il ponte, seguirono il sentiero che sale alquanto, serpeggiando, e ora si snoda per la sinuosa costa tutta sonora del torrente profondo, ora si addentra in valloncelli ombrosi, corsi da rivoletti. Lelia ruppe il silenzio per la prima. Attraversarono l’alto prato dov’è una cappellina, dove monti e valli e lago, tutto appare scoperto:

«Temo di essere troppo cattiva e troppo strana, per Lei.»

Massimo sorrise.

«Lelia lo è stata, forse» diss’egli. «Leila non lo è.»

Ella gli prese, camminando a paro con lui, la mano, disse sottovoce:

«Sì, sarò sempre Leila, oramai, sempre Leila. Come vuole che sia, Leila?»

«Voglio che sia buona più di me» egli rispose «e che la sola sua stranezza sia di voler bene a un povero medicuzzo che le offre una vita grama.»