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450 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

tediose, non pretenda allettarmi con paradisi nè atterrirmi con inferni.

Domani, La vedrò? Se la mia camera avesse una finestra sulla piazza, credo che ci starei tutto il dì, sperando! Ma la mia camera guarda il cortile. Faccio male se nel pomeriggio, alle tre, parto da San Mamette e vado a sedere nell’erba in faccia alla cascata? Faccio male se mi trattengo un poco presso una cappelletta mezzo diroccata dove il sentiero comincia a discendere e si scopre a un tratto tutta la valle, anche colle rupi di Dasio e la punta di dolomia? Sarebbe male se Lei passasse di là andando a visitare i Suoi sindaci?

Forse Leila non dovrebbe scrivere queste cose.

Povera Leila »


Ritornata a letto, dormì profondamente, fino a sole alto, il sonno della stanchezza e della giovinezza. Non ebbe pazienza di aspettare il messo di Alberti, fece chiamare il ragazzo del giorno precedente e lo mandò a Dasio colla lettera.

Non uscì più di camera fino alle due. Passò il tempo a guardare i monti, il lago, le nuvole, le vicende della luce e dell’ombra, a fantasticare, a scrivere. Scrisse a donna Fedele, dicendole la propria gioia di essere perdonata e amata, scusandosi ancora di essere partita senza dirglielo, informandola della lettera scritta al padre, pregandola di farle avere notizie della sua salute. Diresse al Mauriziano di Torino, temendo che la lettera non trovasse più donna Fedele ad Arsiero. Alle due uscì per comperare dei francobolli. Sulla porta dell’albergo incontrò il messo che le recava la lettera di Massimo. Se la pose in seno, andò a prendere i francobolli beandosi di quel contatto misterioso, desiderando gustarlo a lungo prima di leggere. Rientrò dopo un quarto d’ora, si recò la lettera alle labbra, l’aperse con mani tremanti Massimo scriveva: