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458 CAPITOLO DECIMOSETTIMO


«Là, là, là!» fece la cugina Eufemia, contenta. «Sieno lodati il Signore e la Madonna! Adesso vai bene, vai bene, vai bene!»

A stento, infinitamente a stento, sorretta da Lelia, fermandosi ogni due scalini, donna Fedele potè salire le scale e trascinarsi nella camera dove, aiutata dalla fanciulla e dalla cugina Eufemia, si pose a letto.

Lelia rimase atterrita, spogliandola, dello stato di dimagrimento e di parziale deformazione enorme in cui la trovò. In presenza della cugina non vennero scambiate fra loro che parole indifferenti. Quando fu a letto, donna Fedele licenziò la vecchietta. Appena uscita costei, Lelia si buttò ginocchioni a baciar piangendo la mano di donna Fedele, che pendeva dal letto.

«Cos’hai mai fatto, bambina?»

Alla voce severa e in pari tempo soave Lelia non potè rispondere che con lagrime più abbondanti. Donna Fedele s’ingannò sul significato di quelle lagrime.

«Dio mio!» diss’ella, sottovoce.

Non intese che la fanciulla piangeva di commozione per lei, per la donna semplice e sublime verso la quale aveva mancato e ch’era venuta, così ammalata, così distrutta, come sarebbe venuta una madre, la più tenera madre; mentr’ella stessa, tutta assorta nell’amore, si era ricordata così poco di lei, delle sue mortali sofferenze. Lelia si affrettò a dire fra i singhiozzi:

«Sono felice, sa, sono tanto felice, ho fatto male a non dirlo a Lei ma ho fatto bene a venire.»

«Hai fatto bene?»

«Sì, mi ama; mi sposa, è tanto nobile, è tanto buono! Le avevamo scritto.»

«Eh!» fece donna Fedele. «Mi sposa! Vorrei vedere, adesso!»

Lelia, sempre inginocchiata, alzò il viso.

«Perchè?» diss’ella «Non ha nessun dovere!»