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460 CAPITOLO DECIMOSETTIMO


La cugina Eufemia, ben deliberata di non coricarsi, malgrado la stanchezza, prima di fare preparativi per la notte, di portarsi in camera brodo, acqua, marsala, prese Lelia a parte, le raccomandò, colle lagrime agli occhi, di far sì che, occorrendo, si potesse avere prontamente un medico. Tremava! Fedele avrebbe dovuto essere al Mauriziano, a quell’ora.

«È tanto tempo, sa» diss’ella, «che prevede di morire. Si è confessata e comunicata ier l’altro e ieri mattina ha voluto che il suo confessore venisse al villino per darle ancora la benedizione. Se almeno fosse possibile di partire per Torino domani! Ma non vorrà certo!»

Lelia, sbigottita, angosciata, s’informò per il medico dall’albergatore. Il medico condotto provvisorio, quello che si era ritirato dal concorso, abitava a Cadate, a meno che dieci minuti da San Mamette. Lelia voleva assolutamente vegliare lei l’ammalata invece della povera vecchia Eufemia, se non la notte intera, almeno una parte. Ma la povera vecchia Eufemia sarebbe morta piuttosto che accettare.

«Una sedia» diss’ella, «perchè se mi corico, anche vestita, mi addormento come un salame; il mio rosario; la mia Madonna della Consolata in mente; io sto meglio che a letto.»

Lelia dovette piegare. Avvertì l’albergatore che forse, prima della mezzanotte, la persona cui ell’aveva mandato il biglietto sarebbe venuta a prendere notizie dell’inferma. Non si coricò. Andava ogni tanto a origliare all’uscio delle sue vicine. Udì donna Fedele comandare alla cugina di porsi a letto. La cugina si schermiva ma poi, l’altra alzando la voce, obbedì. Ottenne solamente di non spogliarsi. Udì donna Fedele chiedere qualche cosa sottovoce e allora la Magis recitare il rosario. Prese una sedia e si dispose di passare la notte lì, pronta a entrare se occorresse.