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60 CAPITOLO SECONDO

dava «Checa!» un po’ si scusava. Era il suo uomo, Gesummaria, che non aveva voluto. E neanche Carnesecca, Maria Vergine. Pareva rinvenuto, appena tolto su dalla strada. Non era come adesso. Anzi aveva detto: «Mettìtimi sul letamaglio, che son Giopo, io.» A questo punto Carnesecca aperse un poco gli occhi e brontolò, col mento sul petto:

«Giobe, no giopo!»

«Sì sì» fece la donna. «Tasì, che adesso i ve porta el cafè.»

Ecco la Checca, finalmente, una pollastrona flemmatica di sedici anni, bianca e rossa, che arriva lemme lemme col caffè, non il caffè del padrone e dei clienti, ma quello della padrona e della serva, un caffè simbolico, nel quale il frumento tostato entra per quattro quinti.

Ma intanto una gallina, che fino a quel momento era andata placidamente a diporto sul letamaio, ora guardando con orgoglio ora beccando con umiltà, impaurita dal cane di casa, starnazzò le ali giù nel cortile e s’imboscò in una siepe.

«Gèsu, la galina, parona!» fece la Checca, fermandosi sui due piedi. «Gèsu, ciàpela ciàpela!» gridò la padrona, conscia di un buco nella siepe e di certi feroci propositi del vicino contro le incursioni gallinacee.

Don Aurelio strappò alla Checca il vassoio del caffè e le due donne, la padrona davanti, la Checca dietro, via come il vento ciabattando per la fanghiglia nera. Un sorso di caffè bastò a rianimare il venditore di Bibbie, che fissò don Aurelio, a bocca aperta, senza dir nulla, con uno sguardo fra trasognato e ridente.

«Cos’avete fatto, benedetto uomo? Cos’avete fatto? Cosa Vi è venuto in mente?»

A questa domanda del curato, Carnesecca sorrise e rispose nel suo italiano di Val d’Astico: