Pagina:Leonardo prosatore.djvu/36

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daveriche e ditemi se non siamo dinanzi a un passo, per la spontaneità nervosa e terribile, d’eloquenza moderna. Par che lo scrittore, trascinato dall’impeto dello sdegno, devii dalla mossa iniziale, poichè da prima si volge contro gli insolenti sprezzatori di così proficuo studio (pazzi a cui la vita non pare lunga abbastanza per occuparsi del corpo umano, ma si per analizzare la mente universale di Dio come l’avessero anatomizzata, pazzi e solo degni d’esercizi brutali come la caccia); e poi, con brusco passaggio, bolla la bestialità matta degli uomini tutti che per amor del ventre diventano più feroci delle belve istesse... D’improvviso, di nuovo riprende il primo filo del discorso, fa una commossa perorazione in pro’ degli alti ingegni, già difesi energicamente in principio contro la barbarie dei grossi intelletti, e che dovrebbero esser tenuti come «Iddii terrestri» (gli «Eroi» del Carlyl!), e onorati di statue e simulacri... Par che l’oratore sosti, un attimo; sorride amaramente, e conclude, scettico: purchè poi non si faccia come i selvaggi dell’India che tagliano a pezzi i simulacri miracolosi, li raspano e li mangiano!

Rare volte il Vinci ha abbandonato l’anima sua scrivendo come in queste pagine concitate amare sarcastiche, che non sono, fortunatamente, come troppo spesso nella prosa sua, un frammento interrotto, ripreso, tornato a interrompere, con l’incontentabilità suprema che fu uno dei caratteri non solo del pittore, ma anche dello scrittore, e forse dell’uomo, ma un organismo solo, sprizzante savor