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dei costumi degl'italiani 261

ha luogo nella solitudine, ma meno ancora in una dissipazione giornaliera e continua senza societá. Nella solitudine, anche dell’uomo il piú sapiente, esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione per l’assenza del vero e della realtá e della pratica, risveglia e risuscita sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; e finalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il continuo e non diviso né divagato pensiero che necessariamente si pone nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce

    quella delle persone che ci circondano in qualunque modo, e che da noi per ragione son disprezzate, prevale sempre in qualche parte a quella delle persone lontane, che da noi per ragione sono stimatissime; quella dell’ultimo libro che si è letto a quella delle passate letture, e cosí discorrendo: o certo è molto difficile l’impedire che in qualche parte non prevalga. Ciò nasce ancora dalla natural debolezza sí dell’intelletto, sí della facoltá elettiva di qualunque uomo, le quali hanno sempre bisogno come di un appoggio, come di una sicurtá e di un garante delle loro determinazioni. L’uomo anche il piú risoluto, e il piú libero nel pensare, è sempre sottoposto in qualche parte e all’irresoluzione e al dubbio, l’una e l’altro molestissimi alla natura umana. Il rimedio piú pronto e forse unico contro questi due mali è l’autoritá, ed è impossibile che l’uomo rifiuti del tutto questo rimedio. Egli prova un certo piacere, un senso di riposo, un’opinione o una confusa immaginazione di sicurezza, ricorrendo all’autoritá, assidendosi sotto l’ombra sua, e pigliandola come per ischermo delle determinazioni sí del suo intelletto che della sua volontá, nella tanta incertitudine delle cose e della vita. La ragione che gli dimostra la vanitá ed insufficienza di questo schermo, non basta a fare che egli in qualche modo non se ne prevaglia quasi sempre. E per lo contrario essa ragione di rado può fare, in qualsivoglia grande e forte spirito, che una credenza o una risoluzione presa contro l’avviso degli altri, e massime de’ piú prossimi e presenti, non che de’ piú stimati, non sia sempre accompagnata da un qualche sospetto e timore di avere errato e di errare, non ostante che ella si riconosca per ragionevolissima quanto arriva a vedere il proprio pensiero e giudizio, e il contrario avviso per falsissimo e privo di fondamento e cattivissimo. L’uomo preferisce sovente l’avviso degli altri al consiglio proprio; o, trovando quello conforme a questo, è piú mosso e riposa piú sopra quello che sul proprio giudizio, anche nelle cose dov’egli riconosce gli altri per molto inferiori a sé d’intelligenza, di pratica e simili. Ciò nasce [da] che le cause che determinano sé stesso si veggono interamente, le altrui non cosí bene, onde si stimano di piú. L’uomo ha bisogno in tutto dell’illusione; e della lontananza od oscuritá degli oggetti per valutarli.
     Però ne’ dubbi e nelle irresoluzioni, tanto volentieri e quasi per necessitá o istinto di natura ricerchiamo il consiglio, anche, non potendo altro, di persone poco stimate da noi, o stimate meno di noi, e le quali sappiamo o che non sapranno consigliarci bene, o che intenderanno il negozio e scopriranno il partito conveniente meno di quello che possiamo far noi da noi stessi.