Pagina:Leopardi, Giacomo – Pensieri, Moralisti greci, 1932 – BEIC 1858513.djvu/326

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di frasi, di significati rarissimi e stravaganti ne trovate pressoch’io non dissi a ogni pagina, e il Mai dietro a schiarire grammaticalmente quando uno quando altro passo, non dico buio ma non di rado oscuro, sempre per la lingua maraviglioso: aggiungeteci un’ortografia giá vecchia, decrepita di piú secoli, con cui Frontone anche le parole giovani aggrinza e incanutisce. Da queste cose la materia, o sia l’estrinseco del suo stile, si dèe credere per certo che ricavasse un sapore asciutto e brusco, e che in tutta quanta essa materia s’incarnasse e immedesimasse quell’austeritá che vediamo in tanti de’ nostri ne’ quali, purché cápiti l’occasione, non dubitiamo di chiamare questa qualitá «secchezza», che infatti viene a esser tutt’uno. E se altri opponesse che Frontone non ci fa punto al palato quell’effetto che ci fanno scrittori italiani ogni volta che tirino tanto o quanto al secco e stitico, anzi dá risolutamente nel dolce, facendomi dalla seconda opposizione che si spaccerebbe in un batter d’occhio, risponderei che la dolcezza può benissimo stare con quella qualitá ch’io dico; e senza piú, potendo dir molte cose, citerei Fozio che in Dionigi d’Alicarnasso trovò l’una e l’altra. E rimontando alla prima difficoltá, domanderei che fosse attribuito non a pertinacia di mantenere l’assunto ma a confidenza nel vero e a maturitá di riflessione fatta, se francamente e piú largamente che non occorresse per salvare il detto di sopra, affermassi che né di questa né d’altra tale proprietá di nessuno scrittore sia latino sia greco sia di qualsivoglia altra lingua morta, non è possibile presentemente di sentire il sapore fuorch’oltremodo svanito. Intendo tutte quelle proprietá che s’appartengono al di fuori dello stile, cioè alla favella, ma particolarmente certe piú recondite per le quali, a volere che si sentissero, ci sarebbe piú special bisogno ch’altri avesse imparata e adoprata quella tal lingua da fanciullo, o se la fosse col lungo e assiduo uso di favellarla si cogli altri e si con sé medesimo, dimesticata non altrimenti o quasi come l’imparata da fanciullo: tra le quali l’«asprezza» di cui si ragionava, non è l’ultima. Imperocché quando altri si mette a leggere un libro scritto nella sua propria lingua (dico propria in qualunque si sia delle due maniere qui sopra specificate), non s’aspetta di trovare novitá né raritá né difficoltá in quello eh’è per lui cosi antico e ordinario e che egli quando bene si tenesse ignorante di ciascun’altra cosa, senza fallo si penserebbe d’avere su per le dita; e trovandone si maraviglia; e come chi palpa con mano nuda un panno ispido e