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pensieri - lxxxii 49

perché gli uomini necessariamente, alcuni piú ed alcuni meno, quando non imitano gli altri, sono imitatori di sé medesimi. Però quelli che viaggiano, specialmente se sono uomini di qualche ingegno e che posseggano l’arte del conversare, facilmente lasciano di sé, nei luoghi da cui passano, un’opinione molto superiore al vero, atteso l’opportunitá che hanno di celare quella che è difetto ordinario degli spiriti, dico la povertá. Poiché quel tanto che essi mettono fuori in una o in poco piú occasioni, parlando principalmente delle materie piú appartenenti a loro, in sulle quali, anche senza usare artifizio, sono condotti dalla cortesia o dalla curiositá degli altri, è creduto, non la loro ricchezza intera, ma una minima parte di quella, e, per dir cosí, moneta da spendere alla giornata, non giá, come è forse il piú delle volte, o tutta la somma, o la maggior parte dei loro danari. E questa credenza riesce stabile, per mancanza di nuove occasioni che la distruggano. Le stesse cause fanno che i viaggiatori similmente dall’altro lato sono soggetti ad errare, giudicando troppo altamente delle persone di qualche capacitá, che ne’ viaggi vengono loro alle mani.

LXXXII.

Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a sé stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. A questa grande esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto piú che un fanciullo, il vivere antico porgeva materia infinita e pronta: ma oggi il vivere de’ privati è sí povero di casi, e in universale di tal natura che, per mancamento di occasioni, molta parte degli uomini muore avanti all’esperienza ch’io dico, e però bambina poco altrimenti che non nacque. Agli altri il conoscimento e il possesso di sé medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare.

Leopardi, Opere - vii. 4