Pagina:Leopardi - Epistolario, Le Monnier, 1934, I.djvu/131

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98 EPISTOLARIO male, e quanto a nettezza 8’adopreranno a poter loro. Non ci deluda, Signor mio caro, e non fraudi l’aspettazione mia e di mio padre che la saluta e la brama vivamente. Se il nome di maestro le dà tanta noia, coni’ Ella dice, non gliel darò più. To volea dire, Consigliere e guida negli studi, e spero ch’Ella non rifiuterà quest’ufficio in favor mio, se rifiuta quel nome. Mi dolgo assai quando penso che forse le avrò fatto stomaco attribuendole la traduzione di Giovenale. Ma non avendola né letta né anco veduta, non potea sapere che fosse indegna di Lei, e la memoria mi ha ingannato circa il nome dell’autore. Dunque Ella m’abbia per ¡scusato.1 Quella versione sarebbe forse di Luigi Uberto Giordani? Una lettera sopra il Libro di Giobbe che ho veduto di lui m’è parsa molto bella e giudiziosa. Del Panegirico e delle altre cose sue, se Ella ne ha, ho curiosità certo, anzi desiderio grande. Non so se siano <li tanta mole che non si possano spedile per la posta. Se sono, quando Ella voglia farmi si pregiato regalo, potrà consegnarlo allo Stella, che me lo spedisca con altre cose che gli ordinerò. Quando le ho detto che Cicerone, una volta che la mia mente si trovava, come accade, in certa disposizione da bramare impressioni vive e gagliarde, mi parve (e fu in un trattato filosofico) più lento e grave che non si conveniva al mio desiderio di quel momento, non ho già voluto dire che questo e gli altri sommi prosatori mi raffreddino e rallentino. Sarebbe questa la grande infelicità o più veramente stupidità. Io comeohé, forse per inclinazione di natura, ami con certa parzialità la poesia, pure leggo e studio, come posso, i prosatori; e in leggerli non mi fo forza, ma provo un diletto infìnito e squisitissimo. E benché creda che non si debba cercare di divenire eccellente in molti generi, non per questo mi pare che io anche coltivando la poesia, abbia a lasciare da banda la prosa, perché sarebbe bene meschino letterato quegli che non sapesse scrivere altro che. versi. E però io mi studio di coltivare ambedue i generi di scrittura insieme, e quasi con pari sollecitudine. Quello che io le cianciava nell’ultima mia intorno alla divina mente di Orazio, ho poi pensato che per la maniera in cui l’ho posto, avrebbe potuto muoverle ira, e nausea giustissimamente. E vero che io finn allora avea parlato di me in particolare, ma quivi tornava al generale, che tanto ha che far la mia mente con quella intesa e voluta da Orazio, quanto la luna co’ granchi, e l’asino colla lira.2 Dopo che Ella mi ha fatto notare l’amicizia che è tra la lingua nostra e la greca, ho preso a riflettervi sopra seriamente, e aperto qualche pro1 Cfr. lett. 48. p. 84, nota 1; e lett. 51, p. 03, nota 1. 2 Nella copia ora scritto «la notte col giorno e la luna co’ granchi; poi G. di sua mano corrèsse come noi testo.