Pagina:Leopardi - Opere I, Le Monnier, Firenze 1845.djvu/24

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di giacomo leopardi.
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studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che v’è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l’eccellente prosa che gli eccellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l’altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di potere tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità, che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Mannuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell’Interpetrazione del Petrarca, come s’abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d’Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell’Impresa, di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguíto di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l’intempestiva morte e, forse, la mistica diversità onde questi due divini ingegni contemplarono l’universo, non è dubbio ch’egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova era delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua pro-