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DIALOGO.
XXXV
dall'accozzamento diverso delle sette note musicali il Barbiere di Siviglia e il Mosè del Rossini.
- Giobertiano.
- Oh ma ci siamo. L'avete detta la gran parola. Che importava darvi tanto da fare per combattere le mie obiezioni, se poi volevate conchiudere dandomi quasi ragione? Sicchè voi siete costretto ad ammettere che la materia non pensa, e che la virtù del pensiero muove da alcun che di non materiale. Voi chiamate ciò una forza misteriosa; io, più logico di voi, argomento della natura del figlio quella del padre, e lo chiamo pensiero, mente, Dio. Ma i nomi importano poco.
- Razionalista.
- Non concedo che importino poco; anzi dico che importano assai, quando vogliono definire ciò ch'è indefinibile. Non dite di grazia ch'io vi do ragione; perchè, se ci penserete un poco, vedrete che noi siamo ancora, e resteremo sempre, lontani le mille miglia l'uno dall'altro. La filosofia leopardiana non nega ciò che voi chiamate Dio ed essa chiama natura, quella virtù cioè per la quale l'universo esiste e si muove; ma dove voi presumete d'intendere Dio, di spiegarlo, di noverarne ad uno ad uno gli attributi, essa dichiara che la essenza della natura è assolutamente incomprensibile, che volerla argomentare da alcuni pochi e minimi effetti che se ne veggono in questo mondo, è grande stoltezza. E dove voi fate Dio qualche cosa di perfettamente distinto dall'universo, essa non sa comprendere la natura separata da questo, e li considera come eternalmente congiunti e indissolubili. A chi le domanda quale legame li unisce fra loro; come stanno ed operano insieme; come possono essere a un tempo uni e molteplici, semplici e misti; in qual modo e per qual ragione l'universo infinito ed eterno si manifesta a noi finito e nel tempo; essa risponde che di