Pagina:Leopardi - Operette morali, Gentile, 1918.djvu/33

Da Wikisource.

xxix

sua dimostrazione non era veramente compiuta. Il dolce canto non era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare l’animo addolorato? Gino Capponi, l'amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande Recanatese1 scrisse una volta2: «Il Leopardi comincia uno de' suoi Dialoghi, inducendo la natura che scaraventa nel mondo un’anima con queste parole: — Vivi e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole... È cosa facile esser grandi uomini, se basti a ciò esser infelici, ed il Leopardi insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva imparata egli quando produsse quelle canzoni per cui sta in alto il nome suo». E il De Sanctis doveva osservare più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei fini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli facevano materia di diletto quel stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perchè può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c'è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro?»3. Ma nè il Capponi, nè il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo, e del 1820, questo pensiero vero e profondo: «L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria»: e suo è quest’altro che lo precede: «Hanno questo di proprio le

  1. Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume La donna, Milano, Agnelli, 1872, pp. 380-81.
  2. Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbera, 1877, II, 445-6.
  3. Studio su G. L.. 3 Napoli, 1905, pag. 213.