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D’ISABELLA ANDREINI. 48

porto invidia all’aria, che à sua voglia entra, & esce da quella soavissima bocca, odio quell’acqua, che le bagna le mani, e la fronte, le spoglie, che la cuoprono, la camera dov’ella posa, la terra, ch’ella tocca, quel letto, che nuda la tien nel seno. O fortunato per tal peso, ben degno d’esser invidiato; ma più di qual si voglia altra cosa invidio, & odio il sonno, il qual baciando (com’io mi credo) chiude que’ bei lumi; nè di ciò contento, dentro v’alberga, e fatto amante geloso, anch’egli di così chiara luce, perche niun’altro la goda, soavemente chiusa la tiene, e se alcuna volta passando i termini del suo consueto, fa, ch’ella dorma, credo, che per altro nol faccia, che perche si scordi dell’amor mio, e della mia servitù. Quanti veggo passar, per la strada, dov’ella habita, tanti veggo nemici. Se sono vestiti di nero, subito dico, sono vestiti così, per dinotar fermezza nell’amor della mia donna; se di bigio, per farle conoscer gli amorosi lor travagli, se di violato, trà me stesso rodendomi, vò figurando, che sia per dinotar segretezza, se di verde, comprendo la speranza, che hanno di posseder il mio bene, se d’azurro, dico, ecco, che amando sono del mio Sole gelosi, anch’essi, e finalmente cosa non veggo, non m’imagino, e che più? non sogno, che fierissimamente non mi tormenti. Così hò l’animo pieno d’infinite sollecitudini, alle quali nè speranza, nè altro può dar conforto. L’aspetto dunque mio Signore, o dal vostro desiato ritorno, o da una vostra salutifera lettera. Piacciavi per pietà di tosto darmi o l’uno, o l’altro aiuto, se non che


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