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della crusca vii

liana (autorità ch’è massima per tutti, e per il Gelli era suprema), non rispondeva come da alcuni si fede ai nostri giorni, cercando di recare ad altro senso le parole e le dottrine di Dante chiarissimo, e adoperandovi certi cavilli,

Che furon come spade alla scritture
In render torti li diritti volti.

Ma fortemente convinto della sua tesi, e parendogli impossibile che Dante avesse mai tenuta e difesa la contraria sentenza, negava a dirittura che quei libri fossero di Dante; e diceva (come può vedersi nella dodicesima delle presenti Lettere, e nel Dialogo intorno alla lingua indirizzato a Pier Francesco Giambullari) le ragioni per le quali egli li credeva apocrifi, e schieravasi tra coloro che avevano giudicato non altro essere quei libri, che una invenzione o una impostura di Gian Giorgio Trissino. Recentemente ancora la medesima tesi fu sostenuta con sottili argomenti e con molta pertinacia da Filippo Scolari. Essa però dopo le vittoriose dimostrazioni datesi dal March. Gian Giacomo Trivulzio e da Pietro Fraticelli, è una opinione definitivamente condannata. Se non che, a ben considerare, la differenza tra il volgare illustre di Dante e il parlar fiorentino del Gelli è cosa tenue, che quasi non può dirsi differenza. Giacchè il fiorentino, che Dante vitupera, non è quello che si usa dalle persone educate e colte, ma quello ch’esce di bocca alla plebe. E similmente il linguaggio de’ piazzaiuoli, ma il linguaggio delle classi più elevate. Così il Gelli dal canto suo, nel portare alle stelle il parlare fiorentino non intende, come oggi da certi novatori si vorrebbe, il parlare de’ trivii, ma il parlare delle civili o costumate conversazioni. Nel sopra detto Dialogo intorno alla lingua egli mette il parlar fiorentino a paro col parlare di