Pagina:Letturecommediagelli.djvu/81

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mani, che ai greci; conciosia che Nevio fusse, per aver detto mal di Scipione Africano, fatto pigliare da il Triunvirato, e tenuto molti anni in carcere; e nientedimanco si dilatò e crebbe di poi ancor tanto questa licenza del mordere, che i Censori la proibirono per legge pubblica. Laonde i poeti, come dice Orazio in quella epistola ch’egli scrive ad Augusto, si rivolsero tutti, per paura del bastone, a dir bene e a dilettare. Queste così fatte variazioni partorirono tre sorti di comedie: l’antica e libera di Eupolo, la quale mordeva scopertamente; la mezzana di Aristofane e di Cratino, la quale faceva ancora ella il medesimo con detti argutissimi, ma alquanto coperti; e la ultima di Menandro, la quale scherzando e motteggiando nelle persone private e basse, accennava più tosto ch’ella toccasse persona alcuna nel vivo. E questa fu di poi approvata da il pubblico, e imitata per più bella e più dilettevole da Plauto e da Terenzio, ancor che i Romani, ritenuti da quella grandezza la quale pareva loro che ricercasse la lor lingua, non si abbassarono mai tanto in simili concetti particulari, quanto fecero i Greci. La qual cosa considerando il dottissimo Poliziano, disse nelle sue Selve:

Claudicat hic Latium, vixque ipsam attingimus umbram
Cecropiae laudis; gravitas Romana repugnat1

E fu chiamato questo poema Comedia da "comos" e ode, che significa canto villanesco, secondo i più. E tanto sia detto per ora a sufficienza della comedia, bastandoci per il proposito nostro; chè l’autore ha chiamata questa sua opera Comedia metaforicamente, sì per avere scoperti in quella molti vizii d’uomini grandi, chiamandogli per il lor nome propio, onde ella è simile a l’antica; sì per averne ripresi alcuni altri, e biasimate molte cose con detti coperti e arguti, onde ella è simile alla mezzana; e sì per esser piena di quei travagli e di quelle

  1. Il concetto e anche la frase son tolti da Quintiliano (X,1,99):in comaedia maxime claudicamus ... Vix levem consequimur umbram; adeo ut mihi sermo ipse romanus non recipere videatur illam solis concessam atticis venerem... Tom. IV, pag. 87 e 88 dell’edizione torinese del Pomba, 1825, in 8°.