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ottavo cantare 307

62.
Costoro alfine se gli fanno avanti,
Per dirgli del prigion c’hanno condotto;
Ma e’ posson predicar ben tutti quanti,
Perch’egli, ch’è nel giuoco un uomo rotto
E perde una gran mano di sessanti
E gliene duole e non ci può star sotto,
Lor non dà retta, e a gagnolare intento,
Pietosamente fa questo lamento:
63.
Che t’ho io fatto mai, fortuna ria,
Che t’hai con me sì grande inimicizia,
Mentre tu mi fai perder tuttavia
Che e’ non mi tocca1 pure a dir Galizia?
Questo non si farebbe anche in Turchia,
L’è proprio un’impietade un’ingiustizia.
Vedi, non lo negar, che tu l’hai meco;
E poi se n’avvedrebbe Nanni cieco.
64.
Ma se volubil sei quanto sdegnosa,
Facciam la pace, manda via lo sdegno;
E se tu sei de’ miseri pietosa,
Danne col farmi vincer qualche segno.
«Fu il vincer sempre mai lodevol cosa,
«Vincasi per fortuna o per ingegno;»
Perciò de’ danni miei restando sazia,
La fortuna mi sia, non la disgrazia.

  1. St. 63. Non mi tocca. Non ho punto il conto mio; non posso fiatare. È ignota l’origine di questo proverbio. (Nota transclusa da pagina 370)