Pagina:Liriche di Sergio Corazzini, Napoli, Ricciardi, 1935.djvu/19

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PREFAZIONE

XV

allora cominciò a cantare. Ma canti veri e propri non furono. Appena battiti di poesia; ciascuno fugace e ansioso come il batter di ciglia del fanciullo il quale spia se ancora gli sia sopra lo sguardo ostile che lo impaura e, per non incontrarsi con quello, sguscia e sgrana le sue trepide occhiate lontano. Così Sergio: per non vedere davanti a sè la nemica, egli cerca d’intorno e lontano tutte le cose dove gli sia dato ritrovare un’eco del suo spasimo, un pianto che risponda al suo pianto. C’è questo pianto delle cose vicine e lontane e Sergio lo coglie con una prodigiosa sicurezza di istinto; ma fra il pianto delle cose e il pianto della sua povera anima smarrita il fanciullo malato non può e non sa trovare quell’equilibrio e quella rispondenza serenatrice che soli consentono la vita e il conforto dell’arte e quanti furono e saranno i poeti del dolore del mondo.

Basta infatti che Sergio confronti con il dolore delle cose il suo stesso dolore perchè egli si accorga che questo questo inesorabilmente sovrasta e senta che egli non riuscirà mai, come gli altri poeti, a staccarlo da sè e staccarlo da sè e a superarlo, confondendolo con quello.

Nella desolata coscienza di questa incapacità è tutto il suo dramma e da questo dramma, troppo sofferto forse, nasce la sua poesia.