Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/166

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160 iii - rime

xix

[Anche il sole resta stupefatto nell’ammirare la bellezza della sua donna.]


     Amor, da cui mai parte gelosia,
ch’ogni mio pensier guida, il passo lento,
m’avea condotto al loco ove contento
un tempo fui, or non vuol piú ch’io sia.
     Mentre girava gli occhi stanchi mia,
vidi i crin d’òr ch’erono sparti al vento,
e il bel pianeta, a rimirar sí attento,
che ’l corso raffrenò della sua via.
     Io, come amante, andando al maggior male,
pensai pria che tornar volessi al foco:
ma poco stette il suo disio nascoso.
     Sua vista mi mostrò chiar che rivale
non m’era, ché passò via, stato un poco,
non so se stupefatto o invidioso.


xx

[Il sole splende piú fulgido, temendo non sia superato dal chiarore degli occhi della sua donna.]


     Poi che tornato è il sole al corso antico,
Febo l’usata sua luce riprende,
e tanto or l’uno, or l’altro sol risplende,
che giá il rigido verno è fatto aprico.
     Se propizio mi fia il primo e amico,
come si mostra quel che il mondo accende,
l’alma quiete alle sue pene attende,
al crudo viver río, aspro e nimico.
     Se Febo assai piú che l’usato chiaro
s’è fatto, e splende or piú che far non suole,
e se piú ha raccese sue fiammelle,
     l’ha fatto, ché temeva le duo stelle
non superassin la fiamma del sole,
e fussi al mondo un ben, quanto lui, raro.