Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/218

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212 iii - rime

lxxiii

[La leggenda delle rose rosse.]


     Non de’ verdi giardini ornati e cólti
dello aprico e dolce aere Pestano,
veniam, madonna, in la tua bianca mano,
ma in aspre selve e valli ombrose còlti:
     ove Venere afflitta e in pensier molti
pel periglio d’Adon correndo invano,
un spino acuto al nudo piè villano
sparse del divin sangue i boschi folti.
     Noi summettemmo allora il bianco fiore,
tanto che ’l divin sangue non aggiunge
a terra, onde il color purpureo nacque.
     Non aure estive o rivi tolti a lunge
noi nutriti hanno, ma sospir d’Amore
l’aure son sute, e lacrime fûr l’acque.


lxxiv

[Sogno lusingatore.]


     Poi che dal bel sembiante dipartisse
pien di lamenti l’alma, come suole,
Amore, a cui de’ miei sospir pur duole,
vedendo le mie luci a pianger fisse,
     con dolce e desiato oblio fin misse
a’ pianti, a’ sospir tristi, alle parole;
e, dormendo, allor fe’ che ’l mio bel Sole
piú che mai lieto e bello a me venisse.
     La mi porgea la sua sinistra mano,
dicendo: — Or non conosci il loco? Questo
è il loco, ove Amor pria dar mi ti volle. —
     Poscia, andando per gradi su pian piano
in altra parte, per dolcezza desto,
pien di desio restai col petto molle.