Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/239

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iii - rime 233

     Io, come quel che non avea ben salde
l’antiche cicatrice,
di tal súbita forza, incauto, oppresso,
non ben pensando ancor quanto è gran lalde
svegliere alle radice20
quel ch’è difficil poi tagliare appresso,
non pote’ far che a sí suave messo
non inclinassi l’uno e l’altro orecchio;
ché ’l rio costume vecchio
tôr non mi può dal core in tempo brieve.25
E, benché avessi ancor quasi presenti
l’ira, gli sdegni e i tristi pentimenti,
fu piú il disio su tal bilancia grieve:
né altro fe’ che far soglia colui
che ha i primi moti in potestá d’altrui.30
     Ma poi (com’uomo usato aver vittoria
d’imprese assai dubbiose,
sa qual sia del vittor la condizione),
parte per racquistar la persa gloria,
parte per non far cose35
che ad altri dien di me giuridizione,
ripensando alla prima inclinazione,
vergogna ebbe di sé l’animo degno;
onde scudo di sdegno
oppose al colpo súbito e mortale.40
Cosí feci a tal forza resistenza:
e fu tanto maggior la mia potenza,
che invan fe’ la percossa dello strale;
né però sí mi copersi e difesi,
che ancor di tal difesa non mi pesi.45
     Perché restò dentro al mio petto sculto,
come in cera sigillo,
quel benigno sembiante umile e pio.
E fu tanto veemente il primo insulto,
che poi punto tranquillo50
per tal pensier non ho avuto il cor mio,