Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/304

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298 v - ambra

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     E, saltando dell’onde, stringe il passo,
di timor piena, fugge nuda e scalza;
lascia i panni e li strali ed il turcasso;
non cura i pruni acuti o l’aspra balza:
resta lo dio dolente, afflitto e lasso:
pel dolor le man stringe, al ciel gli occhi alza,
maladice la man crudele e tarda,
quando i biondi capelli svelti guarda.

29

     E, seguendola allor, diceva: — O mano,
a svellere i bei crin presta e feroce,
ma a tener quel corpo piú che umano
e farmi lieto, oimè! poco veloce. —
Cosí piangendo il primo errore invano,
credendo almeno aggiugner con la voce,
dove arrivar non puote il passo tardo,
gridava: — O ninfa, un fiume sono ed ardo.

30

     Tu m’accendesti in mezzo alle fredd’acque
il petto d’un ardente disir cieco:
perché come nell’onde il corpo giacque,
non giace, che staria meglio, con meco?
Se l’ombra e l’acqua mia chiara ti piacque,
piú bell’ombra, piú belle acque ha il mio speco.
Piaccionti le mie cose, e non piaccio io:
e son pur d’Apennin figliuolo, e dio. —

31

     La ninfa fugge, e sorda a’ prieghi fassi:
a’ bianchi piè aggiugne ale il timore.
Sollecita lo dio, correndo, i passi,
fatti a seguir veloci dall’amore;
vede da pruni e da taglienti sassi
i bianchi piè ferir con gran dolore;
cresce il disio, pel quale e ghiaccia e suda,
vedendola fuggir sí bella e nuda.