Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/39

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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti 33

e molesta; pure, come abbiamo detto dell’infermo, il quale se bene i cibi tutti rapportono al gusto amaritudine, pure lo nutriscono e sono cagione che viva, cosí di questo amarissimo cibo della memoria sua si sosteneva la mia vita: ed in effetto contro a questo male nessun migliore antidoto o rimedio si trovava che il male medesimo; né si poteva vincere quel pensiero se non col medesimo pensiero, perché altra dolcezza non restava al cuore che questa amarissima memoria, e però sola questa giovava al mio male. Essendo adunque necessario ricorrere al secondo rimedio, fuggivo di questi dilettevoli luoghi nel freto e tempesta delle civili occupazioni. Questo rimedio ancora era scarso, perché, avendo quella gentilissima preso il dominio del mio cuore e una volta fattolo suo tra tutti gli altri pensieri, il pensiero e memoria di lei stava in mezzo del cuore, ed a dispetto di tutte l’altre cure, come sua cosa, se lo consumava; perché «cura» non vuol dire altro se non «quella cosa che arde e consuma il cuore». E però, non potendo né con l’uno né con l’altro modo levarmi da tanta amaritudine ed acerbitá, non vi restava altro rimedio e speranza che quello della morte, la quale troppo tardi ode; che si può interpetrare cosí per non aver voluto prima udire i prieghi di tanti che a lei desideravono la vita, come perché l’afflizione sentita dopo la morte sua, non avendo altro rimedio che la morte, era sí grande, che ogni indugio e dilazione della morte, ancora che piccolo, pareva insopportabile.

     In qual parte andrò io ch’io non ti truovi,
trista memoria? in quale oscuro speco
fuggirò io, che sempre non sie meco,
trista memoria, che al mio mal sol giovi?
     Se in prato, lo qual germini fior nuovi,
se all’ombra d’arbuscei verdi m’arreco,
veggo un corrente rivo, io piango seco:
che cosa è, ch’e’ miei pianti non rinnuovi?
     S’io torno all’infelice patrio nido,
tra mille cure questa in mezzo siede
del cor che, come suo, consuma e rode.
     Che debb’io far omai? a che mi fido?
Lasso! che sol sperar posso merzede
da morte, che oramai troppo tardi ode.

Lorenzo il Magnifico, Opere - i. 3