Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.2, Laterza, 1914.djvu/57

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capitolo iii 51

     Lo specular cose celesti e belle,
sí come il grande Anassagora volse
contento al ciel mirare e alle stelle,135
     non è ben sommo; e tal palma gli tolse
un altro maggior ben che gli sta sopra,
che in sé l’onor de’ piú bassi raccolse.
     E come il sol par l’altre stelle cuopra,
cosí questo splendor lucente e chiaro140
ombra l’inferior, ch’è piú degna opra.
     Tanto piú degno, quanto egli è piú raro,
contemplar quel che sopra il ciel dimora,
come parve al filosofo preclaro
     Aristotil, che il mondo tutto onora.145
Ma tal contemplazione ha in sé due parti:
una che l’alma fa col corpo ancora;
     l’altra che questa vita non può darti.
Par che Aristotil nella prima metta
il sommo ben, sanz’altro separarti.150
     Dice, chi bene sua sentenzia ha letta,
che la felicitá è l’operare
virtú perfetta in vita ancor perfetta.
     Ma se in due cose il vero ben dee stare,
l’una la volontá, l’altra l’intendere,155
perfetta o l’una o l’altra non può fare.
     Perché la mente non può ben comprendere,
sendo legata in questo corpo e inclusa,
ha disio sempre di piú alto ascendere.
     Resta in ansietá, e circunfusa160
da piú ardor per quel ben che le manca,
e dentro allo intelletto piú confusa.
     L’intelletto e il disir cosí si stanca:
adunque mai non trova la nostr’alma
la pura veritá formosa e bianca,165
     mentre l’aggrava esta terrestre salma. —