Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/299

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canto decimoquinto

Che una grave bertuccia a’ rai del sole,
Tolto fra braccia un piccioletto amico,
Tutta a forbirlo e a coccolarlo intende;
Così, strillando allegramente, al vizzo
55Petto ella strinse il trepido fanciullo,
E tante gli tessè d’intorno al corpo
Con la lubrica man giochi e carezze,
Che alla fine ei sentì corrergli il sangue
Tale un’ignota voluttà, che a un punto
60Sussultando fra’ brividi si svenne.
    Sveníansi ancor, ma per cagion diversa,
Molte vergini suore, a cui l’intatta
Orsola impera. Altre scorrono urlando
La reggia; altre stracciandosi le chiome
65E battendosi il petto van d’intorno
Perdutamente; qual con vitreo sguardo
Siede come fantasma, e qual, deforme
Per isterici spasmi e di spumanti
Bave immonda la bocca, a simiglianza
70Si contorce di frigido ramarro,
Cui, smessa a un tratto la pesante zappa,
Fiede il villan con infallibil sasso.
    Fra il gridare, il fuggir, le preci, il pianto
Sorse l’invitto Gabríel nell’ira,
75E, volato a Michel, che vergognoso
Dell’ultime sconfitte i men frequenti
Lochi chiedea: — Qual mai desidia è questa
Che t’invade, esclamò? Muti ed inerti
Aspetterem l’esizio ultimo e il crollo
80Di questo regno luminoso? È forse
Speme alcuna d’impero e di salute,
Che nell’armi non sia? Nel contumace
Ozio che il cor già impavido ti prostra,
Rea viltà, dànno certo e infamia io veggio! —
85— Di viltà non parlar, con disdegnosa



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