Pagina:Lucrezio e Fedro.djvu/206

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192 Lib. III. Prologo.

     La Favola dirò. Per iscoprire
     Ciò che in palese un servo non ardìo,
     (Sì di sua sorte il fan cauto i perigli)
     40I sensi suoi in favole rivolse,
     E al livor con novelle si sottrasse.
     Il varco aprimmi Esopo; io dietro a lui
     Più di ciò ch’egli scrisse, inventar seppi,
     Da cui la parte scegliere mi piacque,
     45Che sembrommi più acconcia a mia sventura.
     Se il testimon, l’accusator, il giudice
     Non fosse un sol Sejano, io mi direi
     Dal mal che soffro, giustamente oppresso,
     Nè di cotal conforto in cerca andrei.
     50Che se taluno il suo sospetto inganni,
     E a se ciò tragga, ove il comune io purgo,
     Porrà lo stolto in chiaro i suoi rimorsi.
     Ma costui pur vo’ che mia scusa ascolti.
     Nessun addito. Il pubblico costume
     55Io sol disvelo. È malagevol l’opra;
     Ma se Anacarsi Scita, o il Frigio Esopo,
     Eterna fama con l’ingegno loro
     Acquistaro; io che nacqui a’ dotti Greci
     Più vicin, lascerò che neghittoso
     60Sonno a’ miei Traci un giusto onor rapisca?
     Nè il primo già sarò, cui vantin essi
     Fra’ dotti spirti; ebbero un Lin d’Apollo,
     Ed Orfeo de le Muse illustri germi.