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84 in un ospedale


rimasti feriti nella vita privata, se fossero atterrati così dalle disgrazie del lavoro, riempirebbero le corsìe di lamenti. Dimostrano una forza, uno stoicismo, una serenità, un buonumore, che non erano in tutti, che vengono dall’immensa fusione delle virtù nazionali fattasi nell’ardente crogiuolo della guerra. Sono trasfigurati dalla fierezza e dalla nobiltà d’uno spirito collettivo. Essi rimangono inconsapevolmente eroi di fronte alla tortura fisica come di fronte al nemico. Non si arrendono al male.

Interrogati, raccontano con semplicità rude le loro gesta senza vederne il valore. Pare che parlino di cose di tutti i giorni. Si sente dire: «Sono stato ferito mentre tagliavo un reticolato» nel tono di chi dicesse: «Mi sono fatto male scendendo le scale di casa». Chi si aspettasse delle narrazioni romanzesche rimarrebbe deluso.

L’assalto? Roba da niente. «Tutto sta ad arrivare a una cinquantina di metri dagli austriaci — mi ha raccontato un calabrese ferito alla gamba — perchè fino a cinquanta metri sparano. Poi, giù, Savoiaaa!, e quelli alzano le mani. Ed è finito».

«E che impressione si prova quando si è a cinquanta metri dal nemico? e gli si va addosso?» — gli ho chiesto. La sua faccia abbronzata si è aperta in un largo sorriso mentre egli dava questa risposta imprevedibile: «Eh,... si gode!».