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sulle pendici del carso 415


Il varco fu aperto nei reticolati. Il segno che la batteria era spezzata venne dal nemico. Si vide un gruppo di austriaci balzare fuori della trincea e precipitarsi per un passaggio creato dalle nostre granate attraverso la siepe di acciaio. Venivano giù in fila, senza fucile, correndo, le mani in alto. Si arrendevano.

Erano venticinque. Profittavano di una sosta fra il cannone e la baionetta. Ma il cannone non aveva finito. Riprendeva in quel momento il suo lavoro di demolizione. Una granata cadde in mezzo al gruppo. Dalla nostra trincea si scorse distintamente lo spettacolo atroce di corpi umani smembrati lanciati in aria nella eruzione di terra, e di fumo dello scoppio. Era come una di quelle esplosioni inverosimili che si vedono raffigurate nei giornali illustrati. Terrorizzati, insanguinati, lividi, i superstiti arrivarono alla posizione italiana. Non erano più che sedici. Il destino aveva fatto giustizia.

Lo spettacolo di queste rese era comune. Una volta verso Castello Nuovo si vide venire avanti un mezzo battaglione austriaco, agitando fazzoletti, con le braccia levate: cinque o seicento uomini, una folla veloce sormontata da un turbinio chiaro di mani. Cessò il fuoco delle nostre trincee e si fece un silenzio di attesa. Ma quella massa non aveva percorso la metà della strada che la separava dai nostri, quando cominciò su di lei un fuoco di shrapnells austriaci, serrato, esatto, rabbioso, che la se-