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126 l’argentina e gli italiani

Di tanto in tanto, in mezzo all'oscurità, avanti a noi, lontano, scorgevamo gruppi di luci verdi e rosse, i quali facevano pensare a piccole e strane costellazioni cadute sulla terra. Il convoglio vi arrivava in mezzo sbuffando. Erano stazioni perdute nella solitudine. Sembravano inglesi, per la costruzione, e talvolta anche per il nome, come Cowland, Open Door.

Durante le fermate si udiva il trillo dei grilli — quel rumore che nulla toglie al grande silenzio dei campi addormentati — sonoro e ritmico come un tintinnìo lontano di sonagliere agitate da cavalli stanchi d'un viaggio senza fine.

Poi, Mercedes. Una stazione più grande delle altre circondata da colossali eucaliptus neri, dalle foglie inquiete perennemente come quelle dei nostri pioppi. All'uscita, delle vetture in fila che ricordano le nostre antiche diligenze, dei ragazzi creoli che si precipitano sulle valigie, dei cocheros che offrono il loro coche anche per l'indomani, per il dopodomani, per qualsiasi tempo e momento, per la città e per il campo. Poi una cittadina dalle vie ampie e sterrate e dalle case minuscole e bianche. Finalmente l'albergo, un antico albergo, con le camere a pianterreno in giro a un patio fresco e delizioso tutto ornato di piante. Quest'antica architettura criolla dà alla casa una dolce aria d'intimità. È una delle cose migliori che la Spagna abbia lasciato quaggiù; ed è una cosa araba!

Alla mattina alle cinque un coche mi portava a gran trotto verso San Jacinto, una delle più belle estancie della Repubblica.



Un viaggio delizioso. L'aria fresca del mattino mi batteva in faccia nell'impeto della corsa portandosi via tutte le tristezze che la città lascia sempre addosso.