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atto terzo 123


ma per la porta di dietro ed ha chiesto

ove sono. Han risposto: su la loggia
per aver fresco; e come aveano ordine
di avvisar per venir tutti a incontrarlo
e condurlo a traverso delle stanze
su la medema. Allor gli ha trattenuti
e dimandato d’una scala a mano.
Credevano volesse ir sul fenile a
fare un sonno, ma l’ha fatta appoggiare
alla loggia e si è messo a salire
per essa. Eccolo, ah! ah!
Orazio.   Servo di loro
signori.
Leandro.   Oimé, quali pazzie son queste!
Orazio.   Sapendo che a venir per via ordinaria
conveniva passar per molti usci,
che in sí fatte occasioni sono ardui
e perigliosi passi, i’ ho creduto
di risparmiare a tutti molto incomodo,
venendo in questa forma.
Massimo.   A quel ch’io veggo,
nipote mia, questo è un matto solenne.
Io non voglio però darvi ad un matto;
vada egli in casa di matti par suoi
a cercar moglie.
Aurelia.   È ancor ragazzo, può
esser brio dell’etá; non è da rompere
cosí in un súbito del tutto.
Massimo.   Vi dico
che non vo’ di piú. Signor Leandro,
priegovi non avere a mal, s’io muto
pensier; non mancheran miglior partiti
a vostro figlio, ma Aurelia non è
piú per lui.
Leandro.   Ben ti sta, meriti peggio,
il mio pazzo: questa ora è l’allegrezza