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scoglio infausto, aspre pendici,
viver qui vita non è.
Questo dunque è ’l gioir che di mia etade
m’apprestava il destin nel piú bel fiore?
Narete. Figlia, in preda al dolore
non ti lasciar cotanto.
Che giova, oimé, sempre disfarsi in pianto?
Or di’: ti die piú noia il fiero Oralto?
Licori. No ’l vidi piú, ma ’l suo ferino ingegno
fa che sempre io paventi; io temo, o padre,
temo piú del suo amor che del suo sdegno.
Narete. Tu resisti, ma pur ti sforza
non irritarlo;
furor pazzo piú si rinforza
col provocarlo.
Licori. Di quest’empio ladron...
Narete. Deh taci, figlia,
ch’un di costor s’appressa.
SCENA V
Morasto e detti.
Non è questi Narete?
Non vegg’io qui la mia Licori? È dessa.
Narete. Che ha costui, che te si attento mira?
Morasto. Ah certo è dessa ! Ah che, se l’occhio errasse
errar non puote il cor. Mi scuopro, o taccio?
Narete. Pur segue; andiam, Licori, usciam d’impaccio
(partono)
Morasto. Dunque la ninfa mia
ch’io di piú riveder speme non ebbi,
quella il cui dolce nome in questi faggi