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atto terzo | 37 |
e per tuo ben non far né pur sembiante
di repugnare o di far forza.
Egisto. E credi
tu che qui fermo tuo valor mi tenga?
E ch’uom tu fossi da atterrirmi e trarmi
in questo modo? Non se tre tuoi pari
stessermi intorno; gli orsi a la foresta
non ho temuto d’affrontare io solo.
Euriso. Ciancia a tuo senno, pur ch’io qui ti leghi.
Egisto. Mira, colei mi lega, ella mi toglie
il mio vigor, il suo real volere
venero e temo; fuor di ciò giá cinto
t’avrei con queste braccia e sollevato
t’avrei percosso al suol.
Merope. Non tacerai
temerario? Affrettar cerchi il tuo fato?
Egisto. Regina, io cedo, io t’ubbidisco, io stesso
qual ti piace m’adatto; ha pochi istanti
ch’io fui per te tratto dai ceppi ed ecco
ch’io ti rendo il tuo don; vieni tu stessa,
stringimi a tuo piacer, tu disciogliesti
queste misere membra e tu le annoda.
Ismene. Or non cred’io che dar potesse un crollo.
Merope. Or va, récami un’asta.
Egisto. Un’asta! O sorte!
Qual di me gioco oggi ti prendi? E quale
commesso ho mai nuovo delitto? Dimmi
a qual fine son io qui avvinto e stretto?
Merope. China quegli occhi, traditore, a terra.
Ismene. Eccoti il ferro.
Euriso. Io ’l prendo e, se t’è in grado,
gliel presento a la gola.
Merope. A me quel ferro.
Egisto. Cosí dunque morir degg’io qual fiera
nei lacci avviluppata e senza almeno