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che macia! Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta. C’era abbasso anche il signor conte, perchè quello è proprio el massariol, lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra.

— Tacete, pettegola — interruppe la contessa Fosca. — Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna porta ella quell’affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?

— Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti.

— Bene, andate a dirgli di venire da me. Presto!

— Subito, Eccellenza. Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò — soggiunse Catte fra i denti, chiudendo l’uscio dietro di sè.

Non era colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher, aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l’andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran dame più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci volevano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora.

In vent’anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra e a manca con l’aiuto dell’allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di casa, come un grande ingegno. La contessa