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Pagina:Malombra.djvu/230

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Edith guardava quell’immagine pia, omaggio di gente semplice al re del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch’ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luino. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensieri, e non poteva; si sentiva legata da una catena dura e fredda, comprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suo, appassionato di altre passioni, chiuso e superbo. Fra lei e il sole, Marina, ritta, scalfiva il suolo con la punta dell’ombrellino, figgendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edith, le entrava nel sangue.

Intanto le voci dell’altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di botto, aperse la bocca; ma un’occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di more, ne colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energia di linguaggio, da mezzo libertino che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo:

— Il letame t’ispira.

Marina, indifferente, diede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non battè ciglio nè mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnessero, quindi sedette presso Edith.

— Le informazioni — diss’ella — riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano.