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lezze naturali, e il Finotti che non le capiva affatto, ammiravano rumorosamente l’orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a’ loro entusiasmi e ne parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scene, sin da quando, nella prima giovinezza, si era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poeta, incomodo inquilino: soggiungeva però di dubitare ora, per la prima volta, che quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversi, di sentire un calore insolito...

— Avanti, signori — disse Marina.

Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi.

— Mio cugino ed io — disse Marina — saremo gli ultimi.

— Allora noi due saremo i primi, signorina Edith.

Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch’ella portava sul braccio. Edith non se ne avvide, quasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchetta, lo scialle celeste, il vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Caronte, poi lo scialle celeste, poi la piccola poppa bruna.

Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrata, Caronte, lo scialle celeste. — Dunque? Dunque? — gridarono il Vezza e il Finotti.

Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e grave, l’ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo basso, studiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insieme, di mala voglia.