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di settembre. Il Vezza le saettava freddi sarcasmi da spettatore indifferente, spruzzati d’aceto clericale; il Finotti, futuro membro della Permanente, la combatteva con furore; e il conte Cesare la giudicava, con le sue idee da patrizio romano antico, un colpevole mezzo termine, un dire al nemico — non ho paura solo delle tue armi, ma anche della tua ombra — e si riscaldava contro il Re, il Ministero, il Parlamento, le classi dirigenti che governando a quel modo, fornivano un pretesto al ribollire del democraticume balordo e borioso. Il conte Cesare parlava più acre del solito, temeva che il Finotti ed il Vezza lo pigliassero per un alleato e non risparmiava nelle sue invettive gli amici politici dell’uno nè dell’altro.

Marina, malgrado l’avessero avvertita di scendere a tavola, sedeva ancora, nella sua camera da letto, al tavolino ovale che le serviva qualche volta da scrittoio e a cui ora appoggiava i gomiti, reggendosi le tempie con le palme. La candela che ardeva davanti a lei le metteva de’ bagliori aurei nei capelli e rivelava fila azzurrognole di vene all’angolo della sua fronte bianca, mezzo coperta dal mignolo roseo; gittava sugli arredi lucidi dispersi nella stanza oscura dei fiochi riflessi, come occhi di spiriti che guardassero la donna pensosa. Sul velluto azzurro d’uno scannello aperto fra i gomiti c’era un foglietto cenerognolo con un grande viluppo di rabeschi d’oro, un’orgia di quattro lettere attorcigliate insieme; sotto a queste, un drappello di zampine di mosca, in battaglia; più giù, al posto del capitano, un nome solo: Giulia. Le zampine di mosca dicevano così:


« Sai che trasporto anch’io la mia capitale da via Bigli a Borgonuovo? Così ha voluto l’imperatore. Son corsa ieri a dire addio alla mia buona vecchia via erbosa. Che orrore i trasporti di capitale! Ho lasciato Sua Maestà nella polvere con gl’imballatori e i tappezzieri e son tornata qui per mandarti subito un petit pâtè chaud. È un gruppettino di casi di romanzo, molto bene impa-