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— No la me piase gnente, no la me piase gnente, no la me piase gnente. Stùa.

Tacevano i bisbigli nei corridoi, le persiane rigate di luce si oscuravano di botto, una dopo l’altra; ma la vecchia casa non dormiva ancora quieta. Nell’ala di ponente le finestre della camera d’angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri d’un gufo mostruoso. Marina vegliava.

Era uscita dalla presenza del conte con il cruccio di un pensiero molesto, con l’ombra sul cuore delle ultime parole pronunciate da lui. Il cruccio si profondava, l’ombra si allargava sempre più, a misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato certo, suonavano e risuonavano nella sua memoria, chiare, irrevocabili: come quando una stilla d’inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umida, che si allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr’ella attraversava lentamente la loggia col lume in mano, il pavimento che la reggeva, il tetto sopra il suo capo, le colonne, gli archi eran pieni di una voce sola, ed era la voce stessa di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio. Beneficio dell’uomo che odiava e doveva odiare. No, non avrebbe riconosciuto questo debito mai. Non sarebbe mai giunta, questa bugiarda voce, a toccare i suoi odi, i suoi amori. Mai. Passò nel corridoio, e le parole dello zio le rimorsero il cuore tormentosamente; davanti, sull’altra scala, le appariva la smilza figura di lui, la gran testa severa illuminata di dolcezza.

Solo quando entrò nella propria camera, fra le pareti pregne de’ suoi pensieri più occulti, della essenza di lei stessa, custodi di tante cose sue e delle segrete voci de’ suoi libri prediletti, delle sue lettere, solo allora si sentì forte, e la sorda irritazione del suo cuore trovò un concetto, una via.

Un pugno d’oro nel viso; ecco le parole del conte; ecco