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— No, no, no!

— Ma... e poi, papà— disse Edith rialzando il viso sereno, — c’è anche un’altra piccola cosa. Questo signore non mi piace.

— Oh, impossibile! Pensa, bambina mia, che forse si potrebbe restare insieme lo stesso.

— No, no! Sai bene, dovrei essere prima sua moglie e poi tua figlia. Figurati! E i nostri progetti? La nostra casettina, le nostre passeggiate? E poi, davvero, io posso perdonare, se vuoi, al signor Ferrieri; ma egli non mi piace. Gli dirai così: la mia signora figlia non può accettare che le sue scuse. Non è vero che gli dirai così, papà?

— No, non è possibile, non farai questo. Io sono vecchio; e se...

Edith gli pose una mano sulla bocca.

— Papà — diss’ella — perchè addolorarmi? È inutile.

Steinegge non sapeva se mostrarsi allegro o dolente. Gesticolava, faceva mille smorfie, buttava esclamazioni teutoniche, come tappi di Champagne che partissero uno dopo l’altro. Prima di lasciar la camera tornò a supplicare Edith di pensarci, di riflettere, d’indugiare. Uscito finalmente, bussò pochi minuti dopo all’uscio per dirle ch’ell’era ancora in tempo di mutare la sua risposta, e che avrebbe potuto consultare il conte Cesare. Ma Edith gli troncò le parole in bocca.

— Almeno — diss’egli obbedendo alle sue abitudini cerimoniose — almeno lo ringrazierò a nome tuo il signor Ferrieri, gli dirò: mia figlia Le è riconoscente....

— Non mi pare necessario, papà. Digli che accetto le sue scuse.

— Ah, bene.

E Steinegge rientrò nella sua camera proprio nel momento in cui la contessa Fosca, assaporando voluttuosamente con la sua vecchia pelle la morbida frescura delle lenzuola di casa Salvador, congedava Catte così: