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CAPITOLO II.


Quid me persequeris?


Egli dormì poco quella notte. Da S. Ambrogio la gran voce solenne delle ore gli riempiva la stanza, si confondeva al suo sopore inquieto, mettendovi l’aspettazione del domani sconosciuto. Verso l’alba si addormentò profondamente e non si svegliò che a giorno inoltrato. Una luce grigia entrava dalla finestra. Pioveva.

Silla si sentiva rotta la persona come se avesse fatto quella notte venti leghe a piedi per domare una agitazione febbrile, cresciuta invece con la spossatezza del corpo. Gli venne l’idea di uscire per una lunga corsa sui bastioni ma poi non ne fece nulla. Rimase un pezzo seduto sul letto a guardar dalla finestra il cielo freddo, uggioso come di febbraio, i tetti lucidi e, contro le scure finestre opposte, i fili tremoli della piova che sussurravano sulle tegole come uno strascico di veli leggeri e schiamazzavano nel cortile sotto i canali.

Guardava, si può dire senza pensare o, almeno, pensando senza il governo della volontà, disordinatamente. Era la penombra di un sogno in cui le idee duravano a muoversi a caso come ospiti stupefatti di stanze signorili dove il padrone non compare. Egli sentiva però nel cuore qualche cosa che la sera precedente non c’era ancora, un misto di stanchezza e di eccitazione, una sorda sofferenza che si ravvivava quando negli occhi

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