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qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva « piangi », ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l’angoscioso grido dell’anima, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un’ultima caduta senza rimedio, nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: « Vedi come è bello? Non l’avrai ». Ma avrebb’egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto: combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere amato, lui? Impossibile, lo sapeva bene.

Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un’altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d’essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finchè avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d’avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l’altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto.

Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl’infondeva una forza demoniaca. N’era stato tentato altre volte,