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ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne.

Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell’abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris?

Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l’ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l’oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel mantello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell’organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel’aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l’occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall’abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di sonno salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripetè la sua domanda, poichè non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine

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