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— Sarà — diss’egli sospirando. — Scriva come vuole anche poche parole purchè gli rialzino il cuore.

Ella non disse niente, si mise a pensare con la penna in mano, guardando il lume. Il curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo guardavano, davano ragione a lui, ma la terra gli dava torto.

Dopo brevi momenti Edith lo chiamò, gli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.

— No — diss’egli — non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano infondere...

— Oh don Innocenzo — esclamò Edith, supplichevole — ho scritto, ho fatto il Suo desiderio. Legga se vuole, ma non mi faccia più domande, non me ne parli più!

— Bene, bene, stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi.


Prima d’entrare in camera Edith origliò all’uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro placido, eguale come quello d’un bambino. Andò a posar il lume nella propria camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando una pace, una forza di cui aveva bisogno.

In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall’orologio del campanile, batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso.

Erano le dieci e mezzo.