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sero a passar mai, eccole corse, svanite, come un secondo. Guardò l’orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.

Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall’aspettazione febbrile; non altro. Forse l’incontro di Steinegge?... No, non voleva pensare a quel nome.

Si alzò ad abbracciare il gran tronco del cipresso, e, chiusi gli occhi, immaginò di origliare, fermo sulla scaletta; assaporò più volte, rinnovandone la immaginazione, il venir lento di un sussurro; sentì un’aura profumata, due piccole mani che prendevan le sue protese, e lo traevano su, nelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli seguivala, muti l’uno e l’altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti: quasi folli e...

Si spiccò dal cipresso con una spinta impetuosa. Guardò ancora l’orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal vigneto sulla scalinata e discese adagio adagio, in punta di piedi, trattenendo il respiro, sostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane. Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lume, nessuna voce usciva dal Palazzo nero. Prese a dritta, rasente il muro, sotto le sparse braccia pendule delle passiflore e dei gelsomini, spinse la porticina della darsena, entrò nel buio. Si vedeva solo, a sinistra, il principio della scaletta e sulla bocca della darsena l’ondular vago dell’acqua che di tratto in tratto posava sulla chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sue, che forse Marina non l’amava, ch’era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella voluto prendersi giuoco di lui, lasciarlo lì tutta la notte?

Sedette sulla scaletta, guardando, per l’alto finestrino ovale che la rischiarava, uno spicchio di cielo, la punta di un cipresso, una stellina pallida.