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Mancavano sette minuti alle undici. V’erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A quest’ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo facesse le undici, egli avrebbe ad aspettare due minuti ancora, due minuti eterni, tormentosi. Ed ecco sopra il suo capo, nelle profondità del Palazzo, da qualche orologio più affrettato degli altri, un batter di ore stridenti. Per donna Marina erano le undici.

Si alzò, salì la scala sin dove non giungeva più il chiarore del finestrino, puntò le mani alle due pareti e, proteso in avanti, stette in ascolto.

Silenzio.

Il gemer lieve d’un uscio gli fermò il respiro. Seguì un sussurro di passi cauti, una voce; non una voce, un soffio rapido:

— Renato!

Silla si gittava già in avanti e gli ricadde il piede.

Un momento dopo udì chiamare ancora, ma più forte, stavolta:

— Renato!

La voce gli pareva e non gli pareva di donna Marina. Diede un passo addietro.

Allora udì scender veloce un rumore di vesti, ristar di botto.

— Silla, Silla! — disse donna Marina.

Era ben lei; non poteva vederla, ma la sentiva in faccia, a pochi scalini di distanza.

— Non sono Renato — diss’egli senza muoversi.

— Ah, non ricorda il nome! La vostra mano!

Balzò giù con impeto, cadde sul braccio sinistro di Silla che la strinse, l’alzò quasi da terra.

— Era vero — diss’ella con voce morente, tenendogli le labbra sul collo — era vero quello che mi avete detto iersera?

Silla non rispose, la strinse più forte, le baciò la spalla, si sentì premer forte la guancia da un’altra guancia di velluto, da un piccolo orecchio caldo.