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trattenendo il respiro. Udì accorrere un fruscìo d’abiti, la chiave girò nella toppa. Silla si allontanò, discese le scale pieno d’inquietudini.

Era Marina che aveva gettato quel grido e poi chiuso l’uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per domarsi, aperse lo stipo, trasse il manoscritto sulla ribalta calata, e puntosi il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia:


«C’est ceci qui a fait cela.
3 Mai 1865.

Marquise de Malombra.
jadis comtesse Varrega.»


Dopo di che aperse un cassetto dello stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistole, in cuoio, con lo stemma della famiglia di Malombra, uno scudo d’azzurro alla cometa d’argento, al canton franco di nero, caricato d’un giglio d’argento.

— Sapete — diss’ella, parlando alle armi — ha accettato di partire. Non ha inteso ch’era una prova.


Silla trovò in biblioteca il commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi ghiotti. Gli raccontò il colloquio, le ultime parole cortesi di donna Marina, il grido udito dal corridoio: disse che non aveva rifiutato espressamente l’invito a pranzo perchè vedeva una donna malata, verso la quale bisognava procedere con le maggiori cautele. Secondo lui era necessario un sollecito provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che procurassero di portarla via subito dal Palazzo, soggiorno pessimo per lei. Il Vezza rispose che lo farebbe, che intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre diceva questo, comparve il medico.

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