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giorno è corso al Palazzo, oggi andava via, chi sa domani dove si sarebbe attaccato!

— Bene — disse don Innocenzo — parce sepulto.

— E ha sentito della lettera? — disse il sindaco.

— No. Che lettera?

— Questo è il bello. Quel signor commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro una lettera incominciata. Non c’è su nomi, non c’è su che «caro zio» e poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?

— Lo avrà minacciato di ammazzarlo — disse don Innocenzo.

— Gran brutte cose — concluse il sindaco — gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella roba, non è vero, signor Curato? Di quegli affari lì non ne capitano.

— Non giudichiamo nessuno — rispose il curato.

Dopo un breve silenzio il sindaco tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si fu allontanato, Steinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzo, gli posò la fronte sopra una spalla.

— Povera Edith, povera Edith — diss’egli.

— Non tema, è forte la sua Edith, e ha poi in sè un’altra forza che vince tutto, anche la morte.

— Sì, ma soffrirà, soffrirà! Non Le pareva però che gli fosse molto attaccata, non è vero? Me lo ha già detto, ma me lo dica ancora, mi dica proprio sinceramente quel che pare a Lei.

Era scuro, per fortuna, e Steinegge non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimenti, il dolore d’aver incoraggiato esso pure l’affetto di Edith per quell’infelice.

— Mi pare di no, — rispose strascicando le parole. — Spero di no. Era una conoscenza molto recente.