Pagina:Mantegazza - Elogio della vecchiaia.djvu/295

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di marco tullio cicerone 271


È mestieri, o Lelio o Scipione, avvezzarsi a far resistenza alla vecchiezza, e supplire ai di lei incomodi con l’alacrità: combatterla, come avviene delle malattie, quando ne siamo assaliti. Aver giudiziosa cura della salute; attendere a moderati esercizi; di cibo e bevanda prenderne quella porzione che basti bensì a rifare le forze, non mai a intorpidirle.

Il corpo non solo, ma le morali facoltà educare e soccorrere, poichè a guisa della fiamma che mancando l’olio si spegne, così queste vengono offuscate dalla vecchiezza. Diversamente dai corpi snervati dall’eccessivo esercizio e dalla fatica, l’animo è più svegliato quanto più operoso.

Conciossiachè quando il poeta Cecilio ci presenta sulla scena i vecchi stolidi, li sottintende creduli, smemorati, dissoluti; cattive qualità non appartenenti all’indole dell’età attempata, bensì generate dall’inerzia, dall’ozio, dalla svogliatezza, che in certi vecchi diventò abitudine. A quel modo che inverecondia e libidine sono vizi assai più da giovani, che da vecchi, e non per questo può darsena la taccia ai giovani tutti, sibbene ai malvagi fra essi; del pari non tutti i vecchi, ma quelli soli di poco cervello si abbandonano alle stolidezze, e smarriscono il retto criterio.

Appio, vecchio e cieco com’era, governava quattro figli già adulti, cinque figlie, un servidorame assai numeroso, ed una estesa clientela. Con mente svegliatissima attendeva a tutti gli affari, i quali non soffrirono mai perchè fosse tanto attempato.

Non pago di essere capo della famiglia, ei ne esercitava di fatto il potere: temuto dagli